lunedì 20 febbraio 2012

War Horse: l’ultima fatica (per gli spettatori) di Steven Spielberg

E’ uscito nelle sale l’altro ieri War Horse, il nuovo film di Steven Spielberg. Devon, 1914. Ted Narracott, contadino povero, claudicante in quanto reduce dalle guerre boere e grande bevitore di birra, acquista per trenta ghinee un puledro mezzo sangue. Suo figlio Albert (un giovane e sconosciuto Jeremy Irvine) lo battezza Joey, lo doma, lo cavalca, e riesce a trasformarlo in un perfetto cavallo da tiro, risollevando le sorti della fattoria. Ma la guerra incombe e la Gran Bretagna entra nel conflitto mondiale. Contemporaneamente, Ted è costretto a vendere l’animale ad un capitano dell’esercito per pagare l’affitto della fattoria, a causa di un raccolto di rape andato distrutto. Sullo sfondo della Grande Guerra, inizierà per il cavallo una serie di avventure, fino a quando sul fronte francese della Somme, nel 1918, Joey ed Albert non si rincontreranno, avendo il ragazzo raggiunto nel frattempo la maggiore età ed essendosi quindi arruolato come soldato. Albert, momentaneamente cieco a causa di lesioni provocategli da un gas (probabilmente iprite), neanche lo vede, eppure lo riconosce. Il lieto fine è d’obbligo.
L’aggettivo che meglio identifica la pellicola è banale. A tratti esageratamente melenso (la scena in cui Joey si sacrifica nel traino di un cannone per “salvare” il cavallo-amico compagno di sventure Topthorn, l’uso del rallenty durante la prima azione di guerra che vede schierata la cavalleria inglese e le mitragliatrici tedesche e così via), il film è privo di originalità. Che l’amicizia tra un ragazzo ed un cavallo sia il pretesto per raccontare la guerra? Forse. Per carità, le dinamiche del genere di guerra non mancano, basti citare la momentanea amicizia nata tra un soldato inglese e uno tedesco per liberare Joey rimasto intrappolato nel filo spinato, che vorrebbe quindi far riflettere sull’assurdità della guerra e sul senso di fratellanza. Eppure War Horse non è esattamente un film di guerra. Spielberg intendeva forse far riflettere sul tentativo continuo degli uomini di controllare la natura, «un cavallo da guerra... che strana bestia sei diventato! I cavalli sono nati per correre liberi»; ma il tema è già visto, già analizzato, già riproposto più e più volte.
Due ore e venti sono troppe. Quando una ragazzina francese trova Joey e Topthorn, dice che «erano nel mulino a vento che aspettavano Don Chisciotte». Questa è senza dubbio la battuta più bella del film, perché per un attimo fa sognare. Ma ahimè sono lontani i tempi di E.T..

Erin

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