lunedì 12 dicembre 2011

Sigarette a colazione #2 - Nonamour


Sveglia verde. Il cielo fuori è grigio e le due cose fanno a botte; giusto un po': giusto il rumore per svegliarmi. Intontito e leggermente scosso dalla rissa – ancora sul letto – mi accendo una sigaretta per fare il punto della situazione. Qualcuno dice che la sveglia non è fatta per mettersi a discettare con se stessi e fare improbabili riassunti d'una vita. La sveglia è fatta, forse, per fare e basta: svegliarsi e porre la Creazione sopra ogni cosa: resuscitare il poiein; poetare col caso.
Quindi questa mia questua di punti fermi ai demoni della sveglia mi sembra immediatamente fuori luogo. E sta finendo la sigaretta mentre sento i muscoli in tensione, pronti a darsi da fare per assumere una posizione eretta in breve tempo e dare forma all'oggi. Devo, però, ancora una volta fermarmi. C'è qualcosa in quest'aria, qualcosa di azzurrognolo che non è solo fumo; c'è un'assenza persistente, una permanente mancanza che aleggia in mezzo alle cose, poggiandovi sopra – a tratti – il suo volatile peso. È quel brivido di noia che percorre tutte le lunghezze d'onda, capace d'insinuarsi pure dentro gli dei. Accendo un'altra sigaretta, perché vedo la questione farsi più fitta di quesiti. E dunque, di preciso, cos'è? Che cos'è questo trascolorare d'ogni diletto in tonalità blande e smorte? Perché il sole del sorriso non ha un trono sulle labbra mie, ma piuttosto una seggiola traballante? Mi devo irare alla maniera dei classici, per ottenere risposta da me stesso?
Devo oltremodo scomporre le mie meningi, forzandole alla rottura del vello d'oro e di pigrizia che le regge? È inaudito. Dico, e so che c'è chi mi darà ragione, che è inaudito per un essere umano svegliarsi farcito di tali e tante cure.
Spengo la sigaretta – evidentemente ad alto contenuto classicheggiante – e mi poggio le mani sulla testa sprofondata nel cuscino. Tendo le braccia verso l'alto e guardo la finestra, col suo spacco triste da donna infranta e le persiane giunte come in mesta preghiera.
C'è un alone di sottrazione. È mancanza... d'amore.
Diciamolo, direbbe qualcuno, c'è poco amore che circola libero. Manca un collettore d'amore in giro per il mondo, quel qualcosa che raccolga le energie positive e le convogli con potenza attraverso l'etere che è in ogni cosa. Mi stupisco per la vaghezza del concetto che mi sono appena espresso; per gioco di parole penso al caffé e – di riflesso – m'accendo un'altra sigaretta. Tanto che fretta c'è? Che fretta ha uno d'alzarsi, senza amore dentro, intorno a se. Manca il carburante, ciò "che move il cielo e tutte l'altre stelle". Ma sono qui a dire banalità, dice l'uomo della strada; quello che passa sotto la mia finestra e mi sente sragionare a casaccio. La cosa più immorale della situazione è che l'amore è diventato banale; l'hanno trasformato in un dare-ricevere ai limiti dell'utilitarismo: l'amor convenzionale del nuovo millennio odora di stantìo e di clausule contrattuali ottocentesche. Non viaggia, questo nostro amore, forse terrorizzato dalla diffidenza; azzoppato dall'indolenza delle metropoli, reso gelido dalla virtualità: dimenticato dalla rapidità di tempi contratti, dilaniato dal multitasking imperante e dalle carriere. L'amore non è più bello, non più litigarello. Se ne sta lì coi vestiti stropicciati che sembra quasi un'amicizia. La comprensione, sua sorella, s'è persa per strada. Ma perché poi, dico io, starsene quà sul letto a pontificare su questioni eterne, perchè questa vena moralizzante dentro questa sveglia verde come liquido acido e urticante?
Sarebbe più facile alzarsi senza amore, e senza amore farsi un caffè o trangugiare senza passione zuccheri in ordine sparso. Alzarsi giusto perché si deve, con quella fede cieca in ciò che si fa – qualsiasi cosa si faccia – perchè si deve fare. Bisognerebbe alzarsi e lasciare la finestra chiusa nella sua preghiera triste, rimboccarsi le maniche nonostante fuori faccia freddo, e uscire a combattere in qualche crociata, armati di pale e picconi, di lame di fortuna pronte a fendere eserciti di nemici invisibili. Spengo un'altra pretenziosa sigaretta.
E penso che non posso, non riesco ancora a tirarmi su. Non sento quella nota, quel breve vibrare che cerco, che tutti (o quasi) cercano di sentire; persino a loro insaputa.
Sconfitto, mi accendo l'ennesima bionda. L'accendo e la guardo bruciare, osservando le travi del tetto a far da contrasto alle fumate bianche. Ci sono sbuffi a forma di nota, e penso che vorrei saper cantare e suonare e scrivere una canzone d'amore.
E ancora non riesco ad alzarmi, e forse sto sognando: sprofondato in un sonno repentino, col mozzicone ancora acceso in mano. Sogno di scrivere e suonare e cantare una canzone.
Il ritornello dice sempre: "Non-amour".
Nino

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