Ogni uscita discografica dei Blind Guardian, viste anche le loro tempistiche compositive, diviene per i fan un vero e proprio evento. Purtroppo, da qualche tempo a questa parte, gli stessi fan tendono a dividersi in due categorie ed entrambe attendono il nuovo album al varco: una fazione si prepara a recepire e analizzare con (forse eccessivo) entusiasmo la nuova proposta musicale, l’altra si prepara a denigrarla pressochè a prescindere, in nome del tristemente di moda “era meglio prima”. Quest’ultimo atteggiamento risulta oltremodo dannoso, specialmente nel mondo metal nel quale svariate “vecchie glorie” tentano un’evoluzione stilistica, dettata da una sincera voglia di cambiare, dai risultati talvolta davvero ottimi. La scelta di recensire questo disco a quasi un anno di distanza dalla data di pubblicazione può apparire poco sensata. Questo è però il tempo necessario per formulare un giudizio onesto e imparziale, privo del suddetto entusiasmo da “fan sfegatato” di cui la recensione sarebbe altrimenti stata pregna.
I Blind Guardian sono una band dall’esperienza più che ventennale e, dall’esordio Battalions of fear (1987), di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. Difficile rinchiuderli nel power metal. I Blind Guardian sono la definizione stessa di un metal dalle tinte fantasy fatto di chitarre classiche, suonate con maestria, alternate a sfuriate di doppia cassa di pura matrice teutonica. Per farla breve: come i Blind Guardian ci sono solo i Blind Guardian. Ma quindi, “come suonano” i Blind Guardian? In molti li identificano con Somewhere far beyond, altri con Imaginations from the other side, altri ancora con Nightfall in Middle Earth. La verità è che i Blind Guardian non sono mai stati gli stessi per due dischi consecutivi. Sebbene il loro stile abbia caratteristiche ben precise che li rende riconoscibili al primo ascolto, ogni loro disco è un’opera a sé stante.
Facciamola breve: il disco in esame è la somma totale di ciò che i Blind Guardian sono stati finora con qualcosa di nuovo. Le partiture ricordano a tratti gli album precedenti (soprattutto nei soli), ripercorrendo in un certo senso tutta la discografia della band. Facile supporre che tale miscela possa sfociare in un caotico pastrocchio, in un minestrone senza capo né coda: niente di più sbagliato. Il tutto è gestito alla perfezione. At the edge of time risulta quindi essere un album compatto, ma dalla varietà stilistica notevole. Non mancano riferimenti alle sonorità grandiose di A night at the Opera che si concretizzano con la quasi costante presenza dell’orchestra, vero valore aggiunto del lavoro. Davvero lodevole ad esempio la traccia conclusiva, la lunga Wheel of time cui l’ensamble orchestrale ceco dona un sapore orientaleggiante davvero inedito. Interessantissimo l’uso del piano, finora poco utilizzato dai bardi di Krefeld. Coinvolgenti i brani più speed e ottime le ballad anche se mediamente inferiori ai classici della band. Nulla da dire sull’aspetto tecnico. La band è ben collaudata e il disco è ottimamente suonato e arrangiato. Le tematiche trattate nei testi (un plauso alle linee vocali, sempre adeguate ed efficaci) sono al solito di matrice fantasy e mitologica: Robert Jordan, Michael Moorcock, John Milton gli autori citati. Insomma, anche se non siamo nel campo dell’epic metal comunemente inteso (sulla cui definizione sarebbe il caso di discutere), il lavoro è dotato di un flavour decisamente epico. Parola ormai inflazionata, ma perfetta per l’occasione.
Tutto perfetto quindi, direte voi. Non del tutto. Il disco è lontano dalla perfezione anche se non di moltissimo. Cosa manca dunque? Innanzitutto l’ispirazione degli esordi. Se da un lato abbiamo un balzo stilistico e una maturazione artistica davvero ragguardevoli, dall’altro è venuta a mancare un po’ della spontaneità che caratterizzava i primi lavori e che contribuiva a renderli accattivanti quasi al primo ascolto. In secondo luogo, forse, l’album deficita in termini di uniformità: abbiamo picchi qualitativi eccezionali, ma nella parte centrale del lavoro si registra una leggera caduta di tono (intendiamoci, nulla di disastroso!) che può indurre talvolta a premere il temuto tasto skip. Questo non avveniva negli album degli anni ’90 che, seppur meno raffinati, potevano contare su una qualità elevata ben “spalmata” su tutto l’album. “Difettini”, in un certo senso, amplificati però dal fatto che non si tratta dell’esordio di qualche band di ventenni. L’album rimane però eccelso e regge bene a ripetuti ascolti senza perdere un’oncia di valore. Che nell’anno 2010, col metal vittima di una crisi generalizzata, si possa ancora fare affidamento su Blind Guardian in un così meraviglioso stato di forma non è cosa da poco. Liberiamoci di pregiudizi, preconcetti, confronti con i capolavori del passato (poco utili per i motivi prima esposti) e godiamoci l’album: è semplicemente grande musica.
Spectraeon_86
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