mercoledì 16 novembre 2011

This must be the place, ovvero alla ricerca di se stessi


This must be the place è l’ultimo film di Paolo Sorrentino, presentato in concorso al Festival di Cannes: applausi in sala a fine proiezione. Entusiasmo che, francamente, mi lascia un po’ perplessa. Film della svolta per il regista? Io direi piuttosto film che non riesce davvero a concretizzarsi, che (rap)presenta sullo schermo una serie di personaggi, di tematiche, senza che questi e queste vengano davvero sviscerate a fondo.
Cheyenne/Sean Penn, ex rockstar anni ’80 sulla cinquantina, vive a Dublino con la moglie Jane. E' in profonda crisi. Nonostante la fama, il palcoscenico e i concerti siano ormai solo più un ricordo, continua a truccarsi come allora, (s)pettinarsi come allora, vestire come allora. Un viaggio in America, in occasione del funerale del padre con cui non ha più contatti da circa trent’anni, sarà l’occasione per crescere. Perché Cheyenne, il cui nome vero è John Smith, è un bambino. La sua non è una vera forma di depressione; semplicemente, non è mai cresciuto. La moglie, che ama e che lo ama, si prende cura di lui come farebbe una madre con il proprio figlio; quando al supermercato viene deriso da due adolescenti a causa del look anticonvenzionale, buca loro il cartoccio del latte; non vuole prendere l’aereo perché ne ha paura. Affetto dalla sindrome di Peter Pan, Cheyenne nasconde gli anni che passano sotto strati di cerone, un tratto di matita nera e rossetto rosso scarlatto. Eppure, giocare a fare l’eterno bambino gli serve a ben poco; carrellino della spesa o trolley, si porta dietro un fardello, forse pieno di ricordi passati e di questioni irrisolte, prima fra tutte il non rapporto con il padre, tema ormai divenuto cliché nelle pellicole che incorniciano la società americana. Ed è proprio un bambino incontrato lungo il suo cammino, a cantargli This must be the place, canzone del gruppo statunitense Talking Heads, formatosi negli anni ’70, il cui frontman David Byrne appare in un cameo e cura le musiche del film: "Never for money / always for love", che forse Cheyenne ha dimenticato per troppo tempo, rinchiudendosi nella sua lussuosa villa, circondato da agi totalmente accessori (la scritta "Cuisine" che indica in quale stanza ci si trova), ma dove finisce per giocare a palla con la moglie in una piscina vuota.



Sean Penn è strepitoso. Sarebbe potuto scadere nella caricatura della rockstar anni ’80, e invece ha divinamente interpretato la caricatura di quel preciso Cheyenne anni ’80. Parodia di quello che era: se chiudiamo gli occhi, ce lo immaginiamo su un palco, con una chitarra, che canta e si scatena, senza che nelle quasi due ore di film si faccia praticamente mai accenno a questo (un grazie sentito a Sorrentino per averci risparmiato banali flash-backs dei tempi che furono, scelta che, considerando il calibro del regista, non fa stupire).
Tanti temi, forse troppi. L’olocausto, la difficoltà di comunicazione tra padre e figlio, la depressione di una madre continua ad aspettare il ritorno di un figlio che mai tornerà, l’ebraismo, il suicidio nel mondo giovanile. Un calderone da cui è davvero difficile trarre le fila.
Viaggio nel tempo, "Hi yo I got plenty of time [...] / I love the passing of time", e viaggio nello spazio, "I come home, she lifted up her wings / guess that this must be the place". Viaggio quindi multidirezionale, centripeto (Cheyenne alla ricerca di se stesso) e centrifugo, a livello spaziale e temporale. L’inutile ma spontanea domanda che da spettatori ci poniamo è quanto questo film sia autobiografico, e a che livello dietro la figura di Cheyenne si celi quella di Sorrentino. Risposta: non lo sapremo mai. Mai conosceremo le reali intenzioni dell’autore, e meno male. Almeno la libertà di interpretazione è ancora nelle nostre mani.

Erin

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