Melancholia. Ultimo film firmato Lars von Trier. Che dire? Un capolavoro di perfetta coesione tra forma e contenuto, dove nulla è lasciato al caso, e dove ogni singolo dettaglio, apparentemente privo di importanza, ritrova una sua collocazione in una concezione più ampia.
Ma partiamo dal titolo. Il pianeta Melancholia minaccia la Terra, ovvero la melancolia o malinconia, che già era apparsa nell’antica teoria umorale del medico greco Ippocrate, minaccia gli uomini. Il tema, di per sé, sarebbe piuttosto banale, ma Lars von Trier porta avanti la regia in modo non convenzionale. Lo spettatore di Melancholia è avvertito fin dall’inizio: sa esattamente come finirà il film. Non ci sarà il lieto fine: una sequenza di immagini onirico-surrealiste aprono la pellicola (ottima la fotografia), rappresentanti l’inevitabile fine della vita sulla Terra. Come sottofondo, Tristano e Isotta di Wagner (anche se forse quei dieci minuti sono troppi), capolavoro dell’ottocento romantico, momento in cui l’uomo si confronta con la grandezza e la forza devastatrice della Natura.
Più che una Madre Natura, una Natura Matrigna, come direbbe Leopardi, che in effetti "Madre è di parto e di voler matrigna", che inganna gli uomini con una finta tregua (la collisione tra Terra e Melancholia sembrerebbe essere scampata) e spezza le illusioni del bambino che, ingenuamente, crede che si salveranno. Eppure, sebbene Natura crudele, Justine/Kirsten Dunst, completamente nuda, le offre la sua pelle nivea , il cui candore viene esaltato dalla luce azzurrina (tratto ormai caratteristico del regista) di Melancholia, in una sorta di accoppiamento primigenio. La donna ci appare come una nuova Eva, e ora non ci sembra neanche più tanto strano che il marito le abbia regalato un terreno su cui piantare alberi di mele.
La donna continua quindi ad essere causa di profondo turbamento per il regista danese. Justine è l’unica a sapere che i fagioli nella bottiglia sono 678, e non perché li abbia contati, ma perché lo sa e basta. La donna rimane quindi un essere superiore, che “stupra” metaforicamente e fisicamente l’uomo (il tradimento che la novella sposa commetterà con il novello compagno di lavoro non può che essere definito così), facendone un burattino senza volontà. Lo sposo vorrebbe consumare la sua prima notte di nozze, ma la sposa non glielo permette, atti mancati che non fanno altro che accrescere la sua frustrazione.
L’opera è perfettamente simmetrica. Due capitoli, ciascuno dedicato a una sorella e al rispettivo senso claustrofobico: quello di Justine determinato da una profonda crisi interiore; quello di Claire/Charlotte Gainsbourg, dettato delle convenzioni e dalla ricchezza materiale che la circonda. Una esplode, l’altra implode. Le due sorelle sono complementari, una bionda e algida, l’altra mora e androgina. Ma le parti si invertiranno. In principio la crisi depressiva (o meglio, melancolica) di Justine è causata da una profonda intolleranza verso la vacuità delle ostentazioni sociali; il bel vestito bianco viene portato quasi come un fardello: si impiglia e si strappa, viene tolto e lasciato su una sedia durante un bagno “purificatorio” che precede il taglio della torta, viene alzato quando la sposa si accuccia sul prato e, con il volto rivolto al cielo (o verso Melancholia), urina ed espelle ciò che di nocivo ha accumulato nel suo corpo. Le convenzioni che destabilizzano Justine sono invece il punto di appiglio per Claire, che ha una bella casa, un bel marito, un bel figlio, una bella macchina, servitù a sua disposizione, e tanto denaro. E quando si rende conto che per la Terra non c’è più alcuna speranza, entra in una profonda crisi (melancolica), trova aiuto nella sorella (la quale a sua volta è guarita), e afferma di voler affrontare la fine nel miglior modo possibile, magari sorseggiando un buon bicchiere di vino sulla terrazza della sua bella villa e ascoltando l’Inno alla Gioia. Così come ha programmato nei minimi dettagli il matrimonio della sorella, vorrebbe programmare la propria morte. Ma Justine le ricorda che non c’è speranza, che la vita sulla Terra è cattiva, che siamo soli. Lars von Trier ci è riuscito. Ci ha teso un tranello, e noi ci siamo cascati. Quello che dovrebbe venir scongiurato, viene invece desiderato con ansia da noi spettatori. Ecco che la fine si converte in qualcosa di postivo, di liberatorio.
L’uomo nulla può contro la Natura. E’ incapace di controllarla, e a poco sono valse le teorie scientifiche del marito di Claire, che passa le sue giornate osservando il cielo e l’avvicinamento progressivo di Melancholia. Il cavallo nero che proprio non vuol saperne di attraversare il ponte, il polpettone che sa di cenere, Davide e Golia di Caravaggio, I cacciatori nella neve di Bruegel il Vecchio, l’immagine di Justine che vestita da sposa, con un mazzo di fiori in mano, scivola lungo il fiume, e che rimanda immediatamente a La morte di Ofelia di Millais, il marito di Claire che, dopo essersi accorto che la moglie ha comprato delle pillole, le chiede quasi ironicamente se è sua intenzione ucciderli tutti. Segni premonitori di un destino ineluttabile.
Teniamo presente che il film precedente di Lars von Trier è Antichrist, titolo chiaramente nietzscheano. L’unica maniera per migliorare questa società marcia in cui ci troviamo a vivere, è ricostruirla da zero, distruggendola e azzerandone i valori. Melancholia non è un film fantascientifico. E’ la rappresentazione dei mali della società, è il suo disgregarsi. E in ogni caso, le classificazioni, portano forse a qualcosa?
Ma partiamo dal titolo. Il pianeta Melancholia minaccia la Terra, ovvero la melancolia o malinconia, che già era apparsa nell’antica teoria umorale del medico greco Ippocrate, minaccia gli uomini. Il tema, di per sé, sarebbe piuttosto banale, ma Lars von Trier porta avanti la regia in modo non convenzionale. Lo spettatore di Melancholia è avvertito fin dall’inizio: sa esattamente come finirà il film. Non ci sarà il lieto fine: una sequenza di immagini onirico-surrealiste aprono la pellicola (ottima la fotografia), rappresentanti l’inevitabile fine della vita sulla Terra. Come sottofondo, Tristano e Isotta di Wagner (anche se forse quei dieci minuti sono troppi), capolavoro dell’ottocento romantico, momento in cui l’uomo si confronta con la grandezza e la forza devastatrice della Natura.
Più che una Madre Natura, una Natura Matrigna, come direbbe Leopardi, che in effetti "Madre è di parto e di voler matrigna", che inganna gli uomini con una finta tregua (la collisione tra Terra e Melancholia sembrerebbe essere scampata) e spezza le illusioni del bambino che, ingenuamente, crede che si salveranno. Eppure, sebbene Natura crudele, Justine/Kirsten Dunst, completamente nuda, le offre la sua pelle nivea , il cui candore viene esaltato dalla luce azzurrina (tratto ormai caratteristico del regista) di Melancholia, in una sorta di accoppiamento primigenio. La donna ci appare come una nuova Eva, e ora non ci sembra neanche più tanto strano che il marito le abbia regalato un terreno su cui piantare alberi di mele.
La donna continua quindi ad essere causa di profondo turbamento per il regista danese. Justine è l’unica a sapere che i fagioli nella bottiglia sono 678, e non perché li abbia contati, ma perché lo sa e basta. La donna rimane quindi un essere superiore, che “stupra” metaforicamente e fisicamente l’uomo (il tradimento che la novella sposa commetterà con il novello compagno di lavoro non può che essere definito così), facendone un burattino senza volontà. Lo sposo vorrebbe consumare la sua prima notte di nozze, ma la sposa non glielo permette, atti mancati che non fanno altro che accrescere la sua frustrazione.
L’opera è perfettamente simmetrica. Due capitoli, ciascuno dedicato a una sorella e al rispettivo senso claustrofobico: quello di Justine determinato da una profonda crisi interiore; quello di Claire/Charlotte Gainsbourg, dettato delle convenzioni e dalla ricchezza materiale che la circonda. Una esplode, l’altra implode. Le due sorelle sono complementari, una bionda e algida, l’altra mora e androgina. Ma le parti si invertiranno. In principio la crisi depressiva (o meglio, melancolica) di Justine è causata da una profonda intolleranza verso la vacuità delle ostentazioni sociali; il bel vestito bianco viene portato quasi come un fardello: si impiglia e si strappa, viene tolto e lasciato su una sedia durante un bagno “purificatorio” che precede il taglio della torta, viene alzato quando la sposa si accuccia sul prato e, con il volto rivolto al cielo (o verso Melancholia), urina ed espelle ciò che di nocivo ha accumulato nel suo corpo. Le convenzioni che destabilizzano Justine sono invece il punto di appiglio per Claire, che ha una bella casa, un bel marito, un bel figlio, una bella macchina, servitù a sua disposizione, e tanto denaro. E quando si rende conto che per la Terra non c’è più alcuna speranza, entra in una profonda crisi (melancolica), trova aiuto nella sorella (la quale a sua volta è guarita), e afferma di voler affrontare la fine nel miglior modo possibile, magari sorseggiando un buon bicchiere di vino sulla terrazza della sua bella villa e ascoltando l’Inno alla Gioia. Così come ha programmato nei minimi dettagli il matrimonio della sorella, vorrebbe programmare la propria morte. Ma Justine le ricorda che non c’è speranza, che la vita sulla Terra è cattiva, che siamo soli. Lars von Trier ci è riuscito. Ci ha teso un tranello, e noi ci siamo cascati. Quello che dovrebbe venir scongiurato, viene invece desiderato con ansia da noi spettatori. Ecco che la fine si converte in qualcosa di postivo, di liberatorio.
L’uomo nulla può contro la Natura. E’ incapace di controllarla, e a poco sono valse le teorie scientifiche del marito di Claire, che passa le sue giornate osservando il cielo e l’avvicinamento progressivo di Melancholia. Il cavallo nero che proprio non vuol saperne di attraversare il ponte, il polpettone che sa di cenere, Davide e Golia di Caravaggio, I cacciatori nella neve di Bruegel il Vecchio, l’immagine di Justine che vestita da sposa, con un mazzo di fiori in mano, scivola lungo il fiume, e che rimanda immediatamente a La morte di Ofelia di Millais, il marito di Claire che, dopo essersi accorto che la moglie ha comprato delle pillole, le chiede quasi ironicamente se è sua intenzione ucciderli tutti. Segni premonitori di un destino ineluttabile.
Teniamo presente che il film precedente di Lars von Trier è Antichrist, titolo chiaramente nietzscheano. L’unica maniera per migliorare questa società marcia in cui ci troviamo a vivere, è ricostruirla da zero, distruggendola e azzerandone i valori. Melancholia non è un film fantascientifico. E’ la rappresentazione dei mali della società, è il suo disgregarsi. E in ogni caso, le classificazioni, portano forse a qualcosa?
Ecco i primi 8 minuti del film:
Erin
2 commenti:
Bella recensione, davvero.
Ho capito un sacco di cose sul film, o meglio ho acquisito un parere interessante. Grazie!
che schifo di film...un film davvero stupido e inutile e sopratutto noioso....da NON vedere nella maniera piu assoluta.....che dire lars von tries si e' preso 2 ore della mia ita ke nessuno piu mi restituira' ....e' questa la vera catastrofe...
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