domenica 16 ottobre 2011

SPECIALE – The Alan Parsons Project (Parte 1)

Abbiamo recentemente parlato dell’ultimo lavoro dei Dream Theater. Restiamo in tema e parliamo di progressive. Un movimento che raggiunge il suo apice negli anni ’70 ma che, a differenza di svariati altri movimenti musicali, può contare svariati ottimi esponenti anche ai giorni nostri. Le sonorità “progressive”, si sviluppano in brani articolati, complicati, tecnicamente ineccepibili, con molte variazioni e, cosa che molti faticano ancora oggi a ingoiare, sovente in tempi dispari. In moltissimi casi, da parte degli artisti, vi è un completo rigetto della forma canzone: la formula “strofa+ritornello+solo” diviene per molti quasi un eresia. Gli artisti se ne allontanano nella direzione opposta e scrivono canzoni, spesso, di lunghissima durata e, altrettanto spesso, completamente estranee al concetto di easy-listening. Il progressive ha dimostrato negli anni di sapersi adattare ai tempi e ai cambiamenti di sonorità, riuscendo a non passare mai di moda. Potremmo iniziare ascoltando il rock progressivo dei Pink Floyd dei ’70, passare poi a quello dei Marillion negli ’80 e continuare con le band progressive rock e metal dei ’90 (Arena, Dream Theater, Pagan’s Mind, Pain Of Salvation, Opeth e moltissime altre) che, imparata la lezione dei maestri, la proiettano nel nuovo millennio. Anche l’Italia può vantare meravigliosi esempi di musica progressiva: un nome su tutti, la PFM. Insomma, tra ieri e oggi, di progressive ce n’è davvero per tutti i palati. Anche per soddisfare i gusti di chi, proprio, non sa rinunciare a nulla. Vorrei parlare di due progetti che corrispondono a quanto appena detto (uno del passato, l’altro più recente) in due Speciali consecutivi.

Cominciamo con il più datato dei due progetti. Gli Alan Parsons Project, sono stati un progetto musicale che, a mio avviso, incarnava tutta la varietà stilistica dei tempi in cui nacque. Se è pur vero che la qualità della sua musica, alla lunga, faticò a reggere il passare degli anni, il Project si distinse sempre dalla massa. Il pionieristico uso di determinati effetti e di tecniche di produzione, unitamente all’abilità compositiva ed esecutiva dei musicisti, li rese unici.


Il progetto musicale nasce dall’incontro tra Alan Parsons, ingegnere del suono alla celeberrima EMI di Abbey Road (dove collaborò alla registrazione del disco Abbey Road dei Beatles e al celebre The dark side of the moon dei Pink Floyd), e Eric Woolfson, di professione avvocato, pianista a tempo perso e, poi, manager di Parsons. La storia del progetto, in realtà, è tutta qui. Almeno fino allo scioglimento. Forse fu la differenza di background musicale dei due, forse fu il clima di fermento artistico tipico della Londra di quegli anni. Fatto sta che Parsons e Woolfson si dedicarono alla composizione di musica nuova, tipicamente progressiva e sperimentale, ma anche sinfonica e orchestrale. L’orchestra è supportata da validi session-men di tradizione rock. Dietro al microfono si avvicendano sempre ottimi cantanti, alcuni dei quali molto noti come John Miles, tra cui lo stesso Woolfson. Altro fattore assai interessante che caratterizza gli album del duo britannico è la formula del concept album. Tutti i loro dischi contengono canzoni legate tra loro, in termini di tematiche. Sebbene il concept album sia già ai tempi una formula collaudata, i due la utilizzano assiduamente e in tutte le sue forme, spaziando tra i più svariati argomenti. Gli Alan Parsons Project sono quindi poliedrici sotto ogni aspetto. Sono in grado di accontentare quasi ogni ascoltatore di musica rock progressiva: qualità nella composizione, tematiche interessanti, canzoni che emanano energia e emozionalità, molte variazioni (che però mai pregiudicano l’orecchiabilità dei brani), sonorità settantiane e classiche amalgamate alla perfezione. La tecnica, ottima anche se probabilmente inferiore rispetto a quella dei campioni del periodo, c’è ed è li per chi voglia curarsene. In alcuni casi, vi è perfino un ritorno alla forma canzone. Un rock progressivo a tutto tondo. Negli anni ’80, il Project cambia genere dedicandosi a un rock decisamente più commerciale (anche se pur sempre di elevata qualità), perdendo in parte il lato prog ma guadagnandoci in notorietà. Un ritorno alle sonorità originarie si ha solo nel 1987, con l’album Gaudi, ispirato alla vita del celebre architetto catalano. Nel 1990, i due scrivono il pomo della discordia: l’album Freudiana. Le canzoni del disco furono oggetto di controversia riguardo l’uso che se ne doveva fare. Parsons propendeva per pubblicarle in forma di album mentre Woolfson desiderava farne un musical. Questo contrasto portò i due alla separazione. Alan Parsons proseguì con una buona carriera solista (fatta di album e di esibizioni live) mentre Woolfson si dedicò attivamente ai musical, dapprima con il già citato Freudiana, quindi con altri progetti più o meno ispirati ai suoi trascorsi nel Project, fino alla sua morte, avvenuta nel 2009 (NdA: parecchio in sordina per altro) a causa di un tumore. Vediamo, quindi, quali sono i dischi più interessanti della fase prog della discografia degli Alan Parsons Project.
                               
Tales of mistery and imagination (1976)

Il primo lavoro del duo è un disco che trae ispirazione da alcuni racconti del grande autore horror americano Edgar Allan Poe. Le atmosfere sono tetre, in alcuni casi addirittura folli, e ben rispecchiano il tono degli oscuri scritti di Poe. Chi ha letto le sue opere farà ancora meno fatica a immergersi nella musica che il Project ci propone. The raven, se non ricordo male il primo brano della storia a utilizzare il vocoder (filtro digitale per voce oggi abusato nel pop da classifica), è un meraviglioso esempio dello stile Alan Parsons Project. Si prosegue con un serie di perle musicali, perfettamente in linea con i temi del concept quali The tell-tale heart (le linee vocali sono quelle di un folle, quale è il protagonista del racconto ominimo), (The system of) Doctor Tarr and Professor Fether e The cask of Amontillado che, a parere di chi scrive, si candida a miglior brano dell’album. Una canzone che incanta con le sue meravigliose melodie sulle quali la splendida voce di John Miles pianifica il crudele omicidio dell’odiato Fortunato: ne scaturisce un’atmosfera di freddezza omicida davvero da brividi. Un album grandioso con passaggi da pelle d’oca.

I Robot (1977)

Il secondo lavoro giunge appena un anno dopo il predecessore ma, di esso, quasi non reca traccia. Le atmosfere sono completamente differenti, benchè lo stile sia sempre lo stesso e ben riconoscibile. Come è intuibile, l’ispirazione per il concept è il romanzo di Isaac Asimov Io, Robot. Il numero dei pezzi strumentali è elevato e nuovamente le sonorità ricalcano perfettamente il tema del concept. Tra i brani più interessanti non si possono non citare I Robot, Genesis CH.1 V.32 o le belle I wouldn’t want to be like you e le magnifiche The voice e Some other time. Disco dalle atmosfere (manco a dirlo) “robotiche”. Interessante e molto godibile anche se, a parere di chi scrive, inferiore al precedente, apre però la strada ad alcuni dei migliori lavori del duo.



(continua…)
Spectraeon_86


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