Abbiamo recentemente parlato
dell’ultimo lavoro dei Dream Theater. Restiamo in tema e parliamo di
progressive. Un movimento che raggiunge il suo apice negli anni ’70 ma che, a
differenza di svariati altri movimenti musicali, può contare svariati ottimi
esponenti anche ai giorni nostri. Le sonorità “progressive”, si sviluppano in
brani articolati, complicati, tecnicamente ineccepibili, con molte variazioni
e, cosa che molti faticano ancora oggi a ingoiare, sovente in tempi dispari. In
moltissimi casi, da parte degli artisti, vi è un completo rigetto della forma
canzone: la formula “strofa+ritornello+solo” diviene per molti quasi un eresia.
Gli artisti se ne allontanano nella direzione opposta e scrivono canzoni, spesso,
di lunghissima durata e, altrettanto spesso, completamente estranee al concetto
di easy-listening. Il progressive ha dimostrato negli anni di sapersi adattare
ai tempi e ai cambiamenti di sonorità, riuscendo a non passare mai di moda.
Potremmo iniziare ascoltando il rock progressivo dei Pink Floyd dei ’70,
passare poi a quello dei Marillion negli ’80 e continuare con le band
progressive rock e metal dei ’90 (Arena, Dream Theater, Pagan’s Mind, Pain Of
Salvation, Opeth e moltissime altre) che, imparata la lezione dei maestri, la
proiettano nel nuovo millennio. Anche l’Italia può vantare meravigliosi esempi
di musica progressiva: un nome su tutti, la PFM. Insomma, tra ieri e oggi, di
progressive ce n’è davvero per tutti i palati. Anche per soddisfare i gusti di
chi, proprio, non sa rinunciare a nulla. Vorrei parlare di due progetti che
corrispondono a quanto appena detto (uno del passato, l’altro più recente) in
due Speciali consecutivi.
Cominciamo con il più datato dei
due progetti. Gli Alan Parsons Project, sono stati un progetto musicale che, a
mio avviso, incarnava tutta la varietà stilistica dei tempi in cui nacque. Se è
pur vero che la qualità della sua musica, alla lunga, faticò a reggere il
passare degli anni, il Project si distinse sempre dalla massa. Il pionieristico
uso di determinati effetti e di tecniche di produzione, unitamente all’abilità
compositiva ed esecutiva dei musicisti, li rese unici.
Il progetto musicale nasce
dall’incontro tra Alan Parsons, ingegnere del suono alla celeberrima EMI di
Abbey Road (dove collaborò alla registrazione del disco Abbey Road dei Beatles e al celebre The dark side of the moon dei Pink Floyd), e Eric Woolfson, di
professione avvocato, pianista a tempo perso e, poi, manager di Parsons. La
storia del progetto, in realtà, è tutta qui. Almeno fino allo scioglimento.
Forse fu la differenza di background musicale dei due, forse fu il clima di
fermento artistico tipico della Londra di quegli anni. Fatto sta che Parsons e
Woolfson si dedicarono alla composizione di musica nuova, tipicamente
progressiva e sperimentale, ma anche sinfonica e orchestrale. L’orchestra è
supportata da validi session-men di tradizione rock. Dietro al microfono si
avvicendano sempre ottimi cantanti, alcuni dei quali molto noti come John
Miles, tra cui lo stesso Woolfson. Altro fattore assai interessante che
caratterizza gli album del duo britannico è la formula del concept album. Tutti
i loro dischi contengono canzoni legate tra loro, in termini di tematiche.
Sebbene il concept album sia già ai tempi una formula collaudata, i due la
utilizzano assiduamente e in tutte le sue forme, spaziando tra i più svariati
argomenti. Gli Alan Parsons Project sono quindi poliedrici sotto ogni aspetto.
Sono in grado di accontentare quasi ogni ascoltatore di musica rock
progressiva: qualità nella composizione, tematiche interessanti, canzoni che
emanano energia e emozionalità, molte variazioni (che però mai pregiudicano
l’orecchiabilità dei brani), sonorità settantiane e classiche amalgamate alla
perfezione. La tecnica, ottima anche se probabilmente inferiore rispetto a
quella dei campioni del periodo, c’è ed è li per chi voglia curarsene. In
alcuni casi, vi è perfino un ritorno alla forma canzone. Un rock progressivo a
tutto tondo. Negli anni ’80, il Project cambia genere dedicandosi a un rock
decisamente più commerciale (anche se pur sempre di elevata qualità), perdendo
in parte il lato prog ma guadagnandoci in notorietà. Un ritorno alle sonorità
originarie si ha solo nel 1987, con l’album Gaudi,
ispirato alla vita del celebre architetto catalano. Nel 1990, i due scrivono il
pomo della discordia: l’album Freudiana.
Le canzoni del disco furono oggetto di controversia riguardo l’uso che se ne
doveva fare. Parsons propendeva per pubblicarle in forma di album mentre
Woolfson desiderava farne un musical. Questo contrasto portò i due alla
separazione. Alan Parsons proseguì con una buona carriera solista (fatta di
album e di esibizioni live) mentre Woolfson si dedicò attivamente ai musical,
dapprima con il già citato Freudiana, quindi con altri progetti più o meno
ispirati ai suoi trascorsi nel Project, fino alla sua morte, avvenuta nel 2009
(NdA: parecchio in sordina per altro) a causa di un tumore. Vediamo, quindi,
quali sono i dischi più interessanti della fase prog della discografia degli
Alan Parsons Project.
Tales of mistery and imagination (1976)
Il primo lavoro del duo è un
disco che trae ispirazione da alcuni racconti del grande autore horror
americano Edgar Allan Poe. Le atmosfere sono tetre, in alcuni casi addirittura
folli, e ben rispecchiano il tono degli oscuri scritti di Poe. Chi ha letto le
sue opere farà ancora meno fatica a immergersi nella musica che il Project ci
propone. The raven, se non ricordo male il primo brano della storia a
utilizzare il vocoder (filtro digitale
per voce oggi abusato nel pop da classifica), è un meraviglioso esempio dello
stile Alan Parsons Project. Si prosegue con un serie di perle musicali,
perfettamente in linea con i temi del concept quali The tell-tale heart (le
linee vocali sono quelle di un folle, quale è il protagonista del racconto
ominimo), (The system of) Doctor Tarr
and Professor Fether e The cask of Amontillado che, a
parere di chi scrive, si candida a miglior brano dell’album. Una canzone che
incanta con le sue meravigliose melodie sulle quali la splendida voce di John
Miles pianifica il crudele omicidio dell’odiato Fortunato: ne scaturisce
un’atmosfera di freddezza omicida davvero da brividi. Un album grandioso con
passaggi da pelle d’oca.
I Robot (1977)
Il secondo lavoro giunge appena
un anno dopo il predecessore ma, di esso, quasi non reca traccia. Le atmosfere
sono completamente differenti, benchè lo stile sia sempre lo stesso e ben
riconoscibile. Come è intuibile, l’ispirazione per il concept è il romanzo di
Isaac Asimov Io, Robot. Il numero dei
pezzi strumentali è elevato e nuovamente le sonorità ricalcano perfettamente il
tema del concept. Tra i brani più interessanti non si possono non citare I
Robot, Genesis CH.1 V.32 o le belle I wouldn’t want to be like you
e le magnifiche The voice e Some other time. Disco dalle
atmosfere (manco a dirlo) “robotiche”. Interessante e molto godibile anche se,
a parere di chi scrive, inferiore al precedente, apre però la strada ad alcuni
dei migliori lavori del duo.
(continua…)
Spectraeon_86
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