martedì 31 gennaio 2012

Sigarette a colazione #5 - The dead


Sveglia che manco ci credo d'essere sveglio già a quest'ora, che fuori ci sono gli uccellini anche se ha nevicato. È tutto bianco.
Pure la mia notte è stata bianca, è volata via tra cose futili, fregandosene di chi dice che ammazzare il tempo corrisponde a commettere un deliberato suicidio.
E allora che ognuno se lo spupazzi come vuole questo tempo, no?
Si diceva del tempo fuori, dell'iridescente candore nevoso, della bianca e ferma freddezza di quella che dalle mie parti, in siculia, sarebbe scambiata per granita d'acqua naturale.
Perché la neve in fondo è un evento – forse uno degli eventi più paralizzanti – non comune: una condizione atmosferica che, nell'arco dell'anno, si verifica con cadenza più sporadica d'una pioggia, una giornata di sole o dei nuvoloni muti e col broncio che né piovono né vogliono che la gente si faccia i bagni di sole. È la neve ragazzi, poche chiacchiere.
E mi accendo una sigaretta per fumarla sull'orlo della finestra, dove – appena poche ore fa – ho passato tanta della notte a fissare particelle di bianco eclissarsi nell'asfalto, o formare gelidi tappeti granulosi e soffici; persino lastre di ghiaccio.
Ci si diverte a vedere la natura che si diverte un po'.
Quando vedo nevicare, come in questa sveglia, vado col pensiero dentro un racconto freddo e un poco lugubre, eppure fatto di talento cristallino, di genio potente: capace di concentrare i grumi di nere di lettere stampigliate in sequenza in vivide istantanee dell'attimo, lo stesso che si tiene dentro l'infinitesimale scissione tra la vita e la morte.
C'è un millimetro, e anche meno, tra la vita e la morte: come tra la neve e la strada.
C'è bisogno, almeno una volta della vita - penso spegnendo e accendendo immediatamente una seconda e nervosa sigaretta - di leggere Gente di Dublino, quantomeno l'ultimo racconto.
È a quello che penso, a I morti, The Dead: a quelle note di piano che si arrampicano su e giù per una scala, a quella serata quasi normale, al viaggio nella carrozza gelida verso casa, a quello stivale che si piega verso il pavimento.
Non è facile da spiegare, anche se la sequenza è chiara; quasi cristallina.
Come questa neve che si precipita a capofitto verso il niente, volteggiando in brevi volute che ne distraggono il percorso solo per pochi istanti. Fuori nevica e io accendo un'altra sigaretta; tanto c'è tempo. Non si aspetterà, quel mondo lì fuori, che mi metta a uscire proprio adesso, proprio oggi.
Certo che però quel racconto non riesce a scivolarmi fuori dalla testa in questa stramba sveglia. C'è la paralisi, la paralisi, la paralisi.
Forse sono solo io ad avere l'impressione che qui intorno ci sia il gelo, che nulla si muova e niente sia vivo e che manchino le energie e la forza a questa generazione e a questo paese.
Il vecchio Joyce sentiva quella paralisi sul suo collo, oltre che sull'Irlanda.
Dall'alto del mio pulpito in cantina, oggi fermamente credo che l'Italia sia sotto ghiaccio, messa lì sperando che qualcosa si congeli in attesa di tempi migliori, o di niente.
E noi giovani, che fra poco già odoreremo di stantìo, siamo stati piazzati lì, col nostro numerino in fila per comprare l'affettato, col nostro posticino che forse c'è e forse no: col dire che i nostri sogni da bambini sono troppo grandi e che pur di lavorare siamo pronti ad assumere posizioni supine e suine.
È la paralisi, baby, la crisi. E nessuno può fiatare, niente chiacchiere: qui è come la neve.
Tutti fermi come Gabriel sul letto, raggelato da Gretta (moglie sua) che quella sera non vuole fare l'amore perché pensa al fidanzatino adolescente morto di polmonite.
E adesso chiudete le vostre finestre elettroniche, aprite le imposte e i vetri e ditemi se vedete la neve.

Poi leggetevi Joyce.

Nino

1 commento:

feed ha detto...

Ti amo.

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