mercoledì 18 gennaio 2012

Sigarette a colazione #4 - Simpatia per il Diavolo


Da leggere (per i coraggiosi che ancora leggono queste fandonie) preferibilmente ascoltando Sympathy for the Devil – Rolling Stone, 1968

Mi sveglio aprendo gli occhi su un posacenere diverso dal solito. Questo è di terracotta, con dei ghirigori fatti di puntini dipinti a mano e piccoli inserti di una qualche stoffa che non riesco a nominare. La stranezza del risveglio è appesantita da una schiera, forse una composizione di mozziconi vari – canniformi e non – sovrastata da una mela morsa in più punti e marcia di morte. Mi alzo, la stanza è più o meno la solita; noto solo un disordine leggermente più creativo e colorato, qualche indumento del quale ignoro la provenienza, e l'assenza del computer.
Tutte queste stramberìe mi scivolano addosso, lavate via dalla convinzione – peraltro comprovata da diversi elementi – d'aver abusato di qualcosa (e forse qualcuno) in preda a qualche delirio, oppure d'aver passato ore di solitaria disperazione, paranoia e catatonia; non cambia niente, non ricordo.
E dunque mi sono già alzato, trovo una sigaretta – una di quelle artigianali - già rollata sulla scrivania tempestata di pezzetti di carta dall'aria gioviale e abitata da un paio d'occhialetti tondi verso i quali – per ora – mi limito solo a sorridere. Dopo due tiri scopro che quella che doveva essere sigaretta non lo è: rapido indosso gli occhiali tondi (e pure specchiati) alla Lennon per coprire la spongiforme consistenza che hanno assunto i miei bulbi oculari, ora rossi come la febbre.
Non faccio in tempo ad aprire la porta della mia stanza che una stratocaster parcheggiata all'angolo mi infonde una nuova, piccola scarica di dubbi. Di stupirmi non ho tempo, sull'uscio della stanza mi trovo a rimirare il mio coinquilino che - sull'uscio di casa – trasporta una custodia con presumibilmente dentro una chitarra. Prima che io possa dare fiato al mio stordimento quello mi interrompe, con occhi semiaperti e un sorrisino serafico sulla bocca:
"Fratello, vado a suonare... a provare, fratello."
Guardo di scatto l'orologio, lo vedo invecchiato di molto; però la giornata è ancora giovane.
"Alle dieci di mattina?"
Chiedo scosso, ancor più scosso per aver scorto, sotto il berretto del mio imbacuccato coinquilino, una chioma generosa e florida.
"C'è l'happening alle due del pomeriggio, a mezzogiorno comincia la jam, fratello. Non ti sarai mica scordato che stasera suoni anche tu, fratello?"
La coerenza del suo dire traballa, lui si appoggia alla porta, provato.
"Credi che il nuovo Jack White possa esimersi dall'esibirsi, privando così il pubblico di un tale spettacolo?"
E il coinquilino se ne va, mostrandomi una placca metallica sulla custodia del suo strumento che, a mo' di targa, identifica la chitarra di "B.D. Dinho". Poi torna e mi chiede: "Chi è Jack White?"
"Ah, nessuno. Ho buttato giù un nome a caso."
Stavolta il coinquilino esce davvero. E io ho taciuto, travolto dall'improvvisa e tellurica consapevolezza d'essermi svegliato in un tempo diverso, un'era dentro la quale non m'ero mai neanche addormentato. Mi vesto con le camicie fiorate di lisergiche tinte che trovo nell'armadio, indosso la giacchetta più hendrixiana che possiedo e imbraccio la chitarra. Non si sa mai. Per qualche secondo le mie dita tremano al solo sospetto di quello che potrebbe succedere dentro questo tempo nuovo (o vecchio?): potrei saper suonare, in fondo sono cambiate così tante cose dall'ultima volta che mi sono svegliato...
Imbraccio lo strumento e tocco delicatamente l'interruttore dell'amplificatore per godermi uno scatto che sia il più lento possibile. S'accende la musica; le corde aspettano solo me, e già ai primi tocchi le sento gemere. Parto, lascio libertà alle dita, anarchia delle scale, tempi istintivi e note sporche; tutto inzaccherato di metallo dev'essere questo suono. E picchio di dita e di plettro, e ascolto...
Scoprendo che sono una pippa anche in quest'era: solita storia, non vado oltre qualche accordo e rimasugli d'assoli dimenticati a memoria.
Con contenuto dispiacere, ripongo la chitarra, ed esco. È sera, una sera di una stagione qualunque; il cielo è viola, di quel viola delle estati del sud, gonfie di scirocco. Ma siamo a Torino, e vedo scendere per le scale gente con la testa avvolta in bandane fluorescenti, donne toccarsi tra un piano e l'altro, un banchetto di droghe assortite sulla soglia d'un pianerottolo comune a quattro appartamenti, fanciulle con agili bassi acustici, suonatori di piano e pacifici hippie. Siamo più o meno ai tempi di Electric ladyland.
Per strada devo evitare d'abbassare lo sguardo per quanto diretti e – finalmente – veri appaiono gli sguardi delle anime, ora privati di freddi filtri. C'è odore di carne e occhi vivi in giro.
Faccio ancora due passi e raggiungo la facoltà, la mia facoltà. Manco a dirlo è occupata, manco a dirlo c'è un corteo infinito che urla di mettere i fiori dentro determinati cannoni. C'è lo speaker, mediamente fatto ma performante alquanto, che parla di Quincy Jones, i Beatles, Ray Charles, cita Dante, Ipponatte e Archiloco, disquisisce di politica seducendo la folla come un Demostene nostrano e azzecca pure sei congiuntivi di fila.
E finalmente capisco: non può che essere uno spudorato sogno.
Nino

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