mercoledì 23 maggio 2012

Speciale Sonata Arctica, parte 1: da Ecliptica a The Days of Grays

L’uscita nei negozi del nuovo album dei finlandesi Sonata Arctica è ormai imminente. Prima di redigerne una recensione (che si preannuncia assai difficile, a giudicare dai trailer online), ho pensato che sarebbe stato utile presentare ai lettori di VC una delle band fiore all’occhiello del panorama musicale rock/metal europeo, autrice non solo del nuovo Stones Grow Her Name, ma anche di illustri (talvolta illustrissimi) album di musica metal melodica. Torniamo quindi al metal, dopo gli ultimi articoli riguardanti prettamente il prog? Non del tutto in effetti. Perché, ascoltandone le composizioni, è facile accorgersi che col tempo i Sonata Arctica sono divenuti qualcosa di diverso dalla classica band power metal...

La band

Il nome è tutto un programma. Sonata Arctica richiama alla mente panorami nordici, pregni di una bellezza fredda e maestosa, e foreste scandinave dagli alberi innevati. Ed è proprio in Scandinavia, più precisamente in Finlandia, che sul finire degli anni ’90, fa la sua comparsa un complesso destinato a lasciare un segno; e non solo in Europa. Certo, non sarà profondo quanto quello lasciato da gruppi più blasonati quali Iron Maiden o Metallica (e stiamo citando solo i più noti). D’altra parte, gli anni ’80 sono finiti da un pezzo e, sebbene il metal sia ben lungi dall’essere sulla via del pensionamento, ha ormai abbandonato il circuito mainstream in molti Paesi. Eppure, i Sonata Arctica possiedono quel “non so che”, quel guizzo artistico che lasciava intendere che quei ragazzi capelloni, che tributavano in maniera poco velata le sonorità degli Stratovarius, erano destinati a lasciare l’underground molto presto. La band nasce nel 1995 con il nome di Tricky Beans, nome spiritoso che fatichiamo ad associare a quel che il gruppo è oggi, e comprendeva gran parte della line-up attuale. Vediamo infatti i fondatori Marko Paasikoski (poi al basso) e Jani Liimatainen alle chitarre, Tommy Portimo alla batteria e, soprattutto, Tony Kakko (vediamo di esaurire qui tutte le risate, nda) alle tastiere e alla voce e che diverrà la vera spina dorsale della band. Il gruppo suona inizialmente hard rock, spostandosi nei successivi anni al metal sinfonico di matrice Stratovarius e cambiando nome (in virtù delle liriche sempre più serie) dapprima in Tricky Means, quindi nel definitivo Sonata Arctica. Tony abbandona le tastiere, dietro alle quali si posiziona Mikko Härkin, per dedicarsi alla voce e alla composizione. Lo stile della band, insieme a pressochè tutti i brani, si deve solamente al suo estro creativo. Questo aspetto sarà contemporaneamente il maggior punto di forza e il più pericoloso punto debole della band. Nel 1999 esce, per l’etichetta Spinefarm, il debut Ecliptica.

Gli album

Passiamo dunque in rassegna, con occhio il più possibile critico, i lavori della band. 

Ecliptica (1999)

Dietro alla copertina blu del debutto, si cela un lavoro di classico power metal scandinavo (è bene specificarlo, prima che qualcuno pensi di imbattersi in un lavoro teutonico alla Gamma Ray). È vero: corre l’anno 1999 e molto è già stato detto in tal senso. Difficile per un gruppo di esordienti allontanarsi troppo dai propri idoli e sfornare qualcosa di nuovo e originale. Cos’hanno, questi ragazzi, da offrire al mondo che altri già non abbiano dato (a parte la velocità d’esecuzione)? Poco, per ora. Forse pochissimo. Eppure c’è un aspetto estremamente rilevante: a distanza di tredici anni, le canzoni sono belle. I Sonata sanno scrivere belle canzoni, al cento per cento metal (e vale sia per le ballad, sia per le speedy songs) ma, soprattutto, spaventosamente orecchiabili e cantabili. Peccano, senza dubbio, di poca originalità e talvolta di ingenuità. A partire dalla voce di Kakko, dal timbro bellissimo, ma spinta in parti acute un po’ “di genere” e, a volte, un tantino non necessarie. Difetti comunque che passano in secondo piano rispetto alla piacevolezza delle canzoni. In conclusione, perchè ascoltare Ecliptica? Perchè sarà anche vero che suona “come gli Stratovarius” (anche se, tutto sommato, solo fino a un certo punto), ma in nessun album degli Stratovarius troverete le bellissime canzoni di Ecliptica. Semplice, no? 



Silence (2001)

Eccoci dunque al secondo lavoro. Cosa è cambiato rispetto al precedente? Non molto, per la verità. Tredici tracce che sono, forse, ancora più “power metal” e veloci di quelle di Ecliptica. I brani non perdono però un’oncia di incisività: trattasi di ottime e ispirate composizioni. Non escono, forse, dagli schemi del genere dichiarato, ma sono, come quelle di Ecliptica, melodiche ed eccezionalmente accattivanti. A mio avviso, i risultati migliori si ottengono quando la band rallenta i tempi, permettendo alla distintiva voce di Tony di sfoderare tutta la sua emozionalità. Ne è esempio lampante quello che ritengo il pezzo in assoluto più riuscito del platter: The End Of This Chapter. Riscontriamo, in definitiva, più o meno i medesimi difetti già presenti in Ecliptica, cui aggiungerei (se di difetto si può parlare) un pizzico di dispersività. I brani più lenti e riflessivi sono seguiti da bordate di doppia cassa di velocità impressionante. Ritengo che, in alcuni casi, questo sia stato fatto per massimizzare l’impatto dei pezzi più spinti. Tuttavia, non posso fare a meno di ritenere questo lavoro, sotto questo aspetto, “poco compatto”; richiama alla mente un alternarsi di stati d’animo molto differenti, tipici della gioventù, più che un maturo e graduale andirivieni di pensieri. Un grandissimo lavoro, comunque, forse addirittura un classico del genere e che merita senza dubbio più d’un ascolto. Per molti,il lavoro definitivo della band. 




Winterheart's Guild (2003)


Il terzo album è un traguardo di estrema importanza per una band. In moltissimi casi, si tratta del disco della consacrazione, di un qualcosa che dirà se la band è degna di nota o solo una delle tante. Spesso ci si aspetta un lavoro dalla grandiosità artistica immensa e che proponga qualcosa di nuovo; qualcosa che dica davvero di che pasta è fatto il gruppo. Soprattutto quando, lo stesso gruppo, è un figlio così evidente di un genere creato da altre realtà musicali precedenti, per quanto belle siano le canzoni che incide. Winterheart’s Guild come si raffronta con le alte aspettative della critica? Accontenterà solo i fan (ormai moltissimi) o segnerà un distacco dal passato? In pratica: i Sonata Arctica sanno camminare con le proprie gambe? Non del tutto, almeno per ora. I Sonata Arctica posticipano il salto di qualità mentre riassestano la line-up. Härkin lascia la band. Lo sostituirà, in pianta stabile, il bravissimo Henrik Klingenberg. Il disco viene però registrato pima, insieme a Jens Johansson degli Stratovarius, dal momento che il posto di tastierista è vacante. Un segnale forte che mostra come il cordone ombelicale della band ancora non sia caduto del tutto. Tony Kakko pare reticente a variare il proprio stile compositivo e, di conseguenza, la band fatica a evolversi più di tanto. Qualche tentativo già lo si nota, di quando in quando, durante l’ascolto: canzoni come Gravenimage e Broken si discostano, almeno parzialmente, dalla maggior parte del materiale precedente. Tuttavia è difficile, per me, dare all’album un giudizio diverso rispetto a quello espresso nei confronti dei buonissimi predecessori. Buone canzoni, orecchiabili, cantabili e ottimamente suonate, ma ancora poca originalità. Un disco buono, forse più che buono, ma che non raggiunge a mio avviso, se non in alcuni passaggi davvero ottimi, la qualità compositiva del debutto Ecliptica, che aveva dalla sua l’arma della spontaneità, e di Silence, ispirata dimostrazione dell’abilità della band di muoversi all’interno del proprio genere con competenza e maestria. 



Reckoning Night (2004)

Eccolo, il pomo della discordia. L’album che ha diviso la critica e i fan e che ha cambiato tutto, per sempre. Per qualcuno, i Sonata Arctica finiscono qui. Per altri, iniziano qui. Quando ripenso alla data d’uscita di questo disco, ancora fatico a crederci. A un solo anno di distanza da Winterheart’s Guild, vede la luce Reckoning Night: l’album che aspettavo. Tutto poteva voler dire un solo anno di composizione: scarsa ispirazione, fretta o chissà cos’altro. Ben pochi, penso, si aspettavano quella che ritengo una maturazione incisiva e repentina. Certo è che, personalmente, ho davvero faticato ad apprezzare quest’album, all’inizio. Un ragazzino di diciotto anni, fissato col power metal e la doppia cassa, come deve reagire quando i Sonata Arctica registrano un lavoro così...diverso? Perchè è questo l’aggettivo più corretto. Reckoning Night è, semplicemente, diverso da tutto ciò che la band è stata fino ad ora. È power metal, eppure non lo è del tutto. È melodico, orecchiabile e cantabile, ma non nella maniera cui eravamo abituati. La cosa che, però, colpisce di più è che suona incredibilmente Sonata Arctica: finalmente, la band ha uno stile che la rende riconoscibile, anche quando le composizioni escono dai canoni del power metal. Cambi di tempo (che talvolta diventa dispari), linee vocali originali, velocità diminuite, intermezzi strumentali nuovi e interessanti. Maturità è fatta: i Sonata Arctica sono una band con la quale il mondo metal, e non solo, dovrà fare i conti. Non è fatta per piacere ai fan del tal o del tal altro gruppo. Cammina sulle proprie gambe, si muove bene e con eleganza. Il singolo Dont’t Say A Word è spiazzante e bellissimo con i suoi intermezzi da brividi ma, per essere giusti, occorrerebbe citare tutti i brani. Mi risulta più semplice consigliarne caldamente l’ascolto. Ascoltatelo e fatevi una vostra idea: come sempre, quando si parla di un lavoro discusso. Doverosa precisazione: naturalmente, per molti dei metal-heads più oltranzisti, questo album è stato un tradimento imperdonabile. Se appartenete a questa corrente di pensiero, lasciate perdere. Unico punto debole, se proprio devo trovarne uno, la presenza della “carina” ma assai scontata My Selene (unico brano non scritto da Kakko ma, mi pare, da Liimatainen), canzone che mal si adatta al contesto sonoro del platter e che avrei apprezzato di più se avesse fatto parte di un qualsiasi album d’esordio. Ironicamente, al primo ascolto, fu l’unico pezzo che mi piacque davvero... beata gioventù. 



Unia (2007)

C’è un aneddoto riguardo questo disco. Quando uscì, si lessero le recensioni più disparate, sulle riviste e in giro per la rete. Non ricordo più dove, lessi una “mezza stroncatura” che paragonava la band, nella persona di Tony Kakko, allo studente migliore della classe che sbaglia un’interrogazione. Credo che noi tutti possiamo ricordare un simile episodio, accaduto chissà quando ai tempi delle medie o del liceo. Lo studente, chiamato dal professore, si avvia al suo destino tremando, conscio dell’imminente fallimento, perchè sa benissimo di non essersi preparato come al solito. La simpatia di quell’articolo mi rimase impressa e me ne ricordo tutt’ora, a distanza di cinque anni. Che dire: calza alla perfezione. Certo, forse non parlerei di un votaccio quanto di una mezza debacle: inevitabile; tutti vi incappano prima o poi. Il disco è strano. Vorrebbe essere un’evoluzione del predecessore, qualcosa di ben lontano dal ritorno alle origini che molti fan speravano, ma la band manca il bersaglio realizzando un punteggio ben al di sotto delle aspettative. Ammirevoli, naturalmente, le intenzioni. Credo che ciò che la band volesse ottenere si possa intravedere in brani come Caleb, forse il pezzo più riuscito. Intendiamoci, le canzoni non sono brutte: è solo che paiono incomplete, insicure, come se chi le avesse scritte avesse ben in mente l’obiettivo, ma non altrettanto bene la via per raggiungerlo. Una buona metà dei brani sono piacevoli, a mio avviso, ma appare chiaro che il nuovo stile deve essere rodato ancora un po’. Impressionante, però, come per partorire Unia ci siano voluti tre anni. Per il nettamente superiore Reckoning Night, ne era bastato uno. I tempi dell’ispirazione sono davvero imprevedibili. 





The Days of Grays (2009)

Quando questo lavoro uscì, devo ammetterlo, trattenni il fiato. Avvicendamento in line-up: esce Liimatainen ed entra il “guitar hero” Elias Viljanen. Benchè Kakko, sia il maggior compositore, l’uscita di Jani, figura centrale e carismatica nella band, potrebbe causare un po’ di smarrimento... C’era una buona possibilità che il nuovo album fosse un flop, che i Sonata Arctica non riuscissero a gestire la nuova direzione artistica intrapresa. C’era una buonissima possibilità che tornassero alle origini, cosa che non posso fare a meno di ritenere un fallimento per la band, un’involuzione, anche se molti fan forse ne avrebbero gioito. Oppure poteva essere un capolavoro. Tutto poteva essere. Fortunatamente, mi bastarono pochi ascolti per ritenerlo un album dalla qualità elevatissima, estremamente variegato e maturo. Il degno successore di Reckoning Night non copia lo stile di quest’ultimo: comincia da dove questi aveva lasciato e si spinge più avanti. Prende gli aspetti migliori di Unia e li integra bene con tutto ciò che i Sonata Arctica sono stati prima. La band perde quella che è stata, in passato, una delle sue migliori qualità, l’orecchiabilità, ma guadagna immensamente in termini di complessità avvicinando la propria proposta sonora a una sorta di progressive (non “progressive metal”, si badi bene). Benchè, al solito, lo stile sia riconoscibilissimo, il tutto suona nuovo e moderno, arricchito di quando in quando da un inedito uso di filtri vocali o di insoliti synth. Si passa da brani tetri ma dal sound classico, come Deathaura (davvero grandioso), a esperimenti sonori come la bizzarra Zeroes, che potrà non incontrare i gusti di tutti gli appassionati, ma che trovo decisamente riuscita. Pezzi molti differenti tra loro, quindi, e ricchi di variazioni. Anche quando la band decide di omaggiare i fan della prima ora, con la melodica e veloce Flag In The Ground (l’unico pezzo di cui forse si poteva davvero fare a meno, visto il contesto), le influenze del nuovo corso sono ben in evidenza. Consiglio quindi un ascolto approfondito e consiglio altresì di acquistare, se possibile, la versione contente la bonus track In The Dark, veramente bellissima. 



Dopo questo “azzeramento”, possiamo apprestarci ad ascoltare il nuovissimo Stones Grow Her Name e vedere che cosa i cinque finlandesi ci hanno preparato questa volta. Come si diceva in apertura, tutto lascia intendere che recensire questo lavoro non sarà facile. Vedremo.

Spectraeon_86

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